La parola default significa fallimento e nel gergo della finanza indica la situazione in cui si trova un soggetto (sia esso una persona fisica, un’azienda o un ente pubblico) con i conti in rosso (condizione che si verifica quando le spese sono superiori alle entrate e non è più possibile pagare i creditori).
Se ad andare in default è uno Stato, questo non è evidentemente più in grado di far fronte agli impegni di spesa assunti (da quelli relativi al pagamento degli stipendi pubblici a quelli riguardanti l’elargizione di servizi per la collettività) e il fallimento ha evidenti ricadute sull’intero tessuto sociale.
Dopo la Grecia, in questo periodo, è l’Italia il Paese sorvegliato con più attenzione da Bruxelles, a causa dei suoi conti non proprio rassicuranti: un deficit pari al 3,9% del Pil ed un debito pubblico arrivato a circa 1.900 miliardi, a cui va aggiunta la sfiducia dei mercati.
Nonostante l’Italia sia la seconda manifattura d’Europa ed avrebbe tutte le potenzialità per uscire dalla crisi, infatti, pesa, nel giudizio negativo dei mercati, il continuo innalzamento del differenziale di rendimento tra i Btp italiani e i Bund tedeschi (spread), che si sta avvicinando alla soglia del 7%, ritenuta il limite oltre il quale dichiarare default: lo spread è considerato una sorta di termometro della salute economica di uno Stato ed in questo momento indica che il nostro Paese ha la temperatura piuttosto alta. Questo innesca un circolo vizioso: se i mercati perdono la fiducia nei confronti di uno Stato, infatti, diminuisce anche la domanda dei relativi bond e automaticamente il compratore chiede un rendimento (ossia un tasso di interesse) più alto per assumersi il rischio, il che comporta evidentemente un ulteriore aumento della dimensione del deficit.
A differenza dell’Italia, la Germania si trova in vetta ai paesi dell’Eurozona, tanto che i suoi titoli, ritenuti affidabili e sicuri, sono utilizzati come metro di paragone per quelli degli altri Stati nella definizione dello spread.